Da quando l’aborto è stato legalizzato, nel 1975, la Francia ha conosciuto un’impressionante inflazione del ricorso alla contraccezione, in ogni sua forma, eppure, il numero di aborti è rimasto nel tempo stranamente costante e soprattutto a un livello altissimo: 200 mila l’anno, quasi uno ogni tre nascite. Ma oggi si diffondono anche nuovi timori legati alla somministrazione della Ru486 fuori dagli ospedali…
Per molti anni, si è tentato di negarlo. Ma ormai, davanti alle crude evidenze statistiche, tanti medici, demografi e sociologi d’Oltralpe hanno rotto il ghiaccio: esiste davvero un inquietante «paradosso abortivo francese».
Non si può definire in altro modo un fenomeno storico del tutto imprevisto che mette oggi in crescente imbarazzo i responsabili sanitari transalpini: da quando l’aborto è stato legalizzato, nel 1975, la Francia ha conosciuto un’impressionante inflazione del ricorso alla contraccezione, in ogni sua forma. Eppure, il numero di aborti è rimasto nel tempo stranamente costante e soprattutto a un livello altissimo: attorno ai 200mila casi ogni anno, ovvero quasi un aborto ogni tre nascite. Un tasso, ad esempio, che è il doppio di quello tedesco. E tutto questo, nonostante gli esperti prevedessero e auspicassero invece negli anni Settanta, come ancora negli anni Ottanta, esattamente il contrario: che «logicamente» l’aborto sarebbe divenuto un fenomeno «residuale» grazie agli «investimenti pubblici» senza precedenti in politiche contraccettive di massa.
Cambiando il punto di vista e passando a quello dei cittadini, il «paradosso» equivale a un’inquietante banalizzazione dell’aborto nella società francese. Ammessa a chiare lettere fin dal 2004 anche da un’autorevole istituzione scientifica pubblica come l’Istituto nazionale di studi demografici (Ined): a parità di altri fattori, «la stabilità dei tassi di Ivg [che sta per interruzione volontaria di gravidanza, il termine burocratico ufficiale utilizzato per l’aborto] sembra proprio tradurre un aumento della propensione a ricorrere all’aborto in caso di gravidanza non prevista».
Una verità scomoda da ammettere in un Paese in cui l’aborto è stato ufficialmente introdotto per legge come una soluzione di estremo ricorso esplicitamente rivolta alle «donne in stato di sofferenza».
Ma di fronte a questo paradosso e all’ampiezza presa dalle deformazioni rispetto all’iniziale ispirazione legislativa, sono in molti oggi a chiedersi quanta parte di responsabilità possa essere imputata all’introduzione dell’aborto chimico: una «specialità» industriale storicamente francese che ancor oggi continua a rappresentare una specificità nazionale.
In effetti, l’introduzione della Ru486 ha innescato lo scivolamento progressivo dell’aborto al di fuori dei confini delle strutture ospedaliere. Al punto che da qualche mese la somministrazione dell’aborto chimico è possibile persino presso i centri associativi di «planning familiare». Prima, vi era già stata un’estensione agli ambulatori medici convenzionati con gli ospedali.
Col concorso di un discorso pubblico inizialmente centrato sulla «semplicità» di fruizione del trattamento anti-ormonale, la quota dell’aborto chimico ha superato in pochi anni il 30% del totale.
Ma oggi, sullo sfondo già tetro dell’auspicata eccezione abortiva trasformatasi invece dopo un trentennio in «norma» corrente, si diffondono anche nuovi timori legati alla somministrazione della Ru486 fuori dagli ospedali. Si moltiplicano, soprattutto su internet, le testimonianze di donne, talora adolescenti, che hanno vissuto il dramma straziante di un aborto pressoché solitario in casa, dopo aver ingerito la Ru486 davanti a un medico. E c’è già, in questi tempi di crisi economica, chi accusa i poteri pubblici di aver allentato oltre ogni limite ragionevole le misure di accompagnamento.
Ciò, sostengono i detrattori, ha forse garantito qualche economia alle casse statali, ma gli effetti concreti sulle persone potrebbero rivelarsi negli anni sempre più devastanti.
Chiamato inizialmente a «risolvere gli inconvenienti dell’aborto chirurgico», l’aborto chimico è visto ormai sempre più spesso come un cavallo di Troia carico di detestabili conseguenze impreviste.
Per molti anni, si è tentato di negarlo. Ma ormai, davanti alle crude evidenze statistiche, tanti medici, demografi e sociologi d’Oltralpe hanno rotto il ghiaccio: esiste davvero un inquietante «paradosso abortivo francese».
Non si può definire in altro modo un fenomeno storico del tutto imprevisto che mette oggi in crescente imbarazzo i responsabili sanitari transalpini: da quando l’aborto è stato legalizzato, nel 1975, la Francia ha conosciuto un’impressionante inflazione del ricorso alla contraccezione, in ogni sua forma. Eppure, il numero di aborti è rimasto nel tempo stranamente costante e soprattutto a un livello altissimo: attorno ai 200mila casi ogni anno, ovvero quasi un aborto ogni tre nascite. Un tasso, ad esempio, che è il doppio di quello tedesco. E tutto questo, nonostante gli esperti prevedessero e auspicassero invece negli anni Settanta, come ancora negli anni Ottanta, esattamente il contrario: che «logicamente» l’aborto sarebbe divenuto un fenomeno «residuale» grazie agli «investimenti pubblici» senza precedenti in politiche contraccettive di massa.
Cambiando il punto di vista e passando a quello dei cittadini, il «paradosso» equivale a un’inquietante banalizzazione dell’aborto nella società francese. Ammessa a chiare lettere fin dal 2004 anche da un’autorevole istituzione scientifica pubblica come l’Istituto nazionale di studi demografici (Ined): a parità di altri fattori, «la stabilità dei tassi di Ivg [che sta per interruzione volontaria di gravidanza, il termine burocratico ufficiale utilizzato per l’aborto] sembra proprio tradurre un aumento della propensione a ricorrere all’aborto in caso di gravidanza non prevista».
Una verità scomoda da ammettere in un Paese in cui l’aborto è stato ufficialmente introdotto per legge come una soluzione di estremo ricorso esplicitamente rivolta alle «donne in stato di sofferenza».
Ma di fronte a questo paradosso e all’ampiezza presa dalle deformazioni rispetto all’iniziale ispirazione legislativa, sono in molti oggi a chiedersi quanta parte di responsabilità possa essere imputata all’introduzione dell’aborto chimico: una «specialità» industriale storicamente francese che ancor oggi continua a rappresentare una specificità nazionale.
In effetti, l’introduzione della Ru486 ha innescato lo scivolamento progressivo dell’aborto al di fuori dei confini delle strutture ospedaliere. Al punto che da qualche mese la somministrazione dell’aborto chimico è possibile persino presso i centri associativi di «planning familiare». Prima, vi era già stata un’estensione agli ambulatori medici convenzionati con gli ospedali.
Col concorso di un discorso pubblico inizialmente centrato sulla «semplicità» di fruizione del trattamento anti-ormonale, la quota dell’aborto chimico ha superato in pochi anni il 30% del totale.
Ma oggi, sullo sfondo già tetro dell’auspicata eccezione abortiva trasformatasi invece dopo un trentennio in «norma» corrente, si diffondono anche nuovi timori legati alla somministrazione della Ru486 fuori dagli ospedali. Si moltiplicano, soprattutto su internet, le testimonianze di donne, talora adolescenti, che hanno vissuto il dramma straziante di un aborto pressoché solitario in casa, dopo aver ingerito la Ru486 davanti a un medico. E c’è già, in questi tempi di crisi economica, chi accusa i poteri pubblici di aver allentato oltre ogni limite ragionevole le misure di accompagnamento.
Ciò, sostengono i detrattori, ha forse garantito qualche economia alle casse statali, ma gli effetti concreti sulle persone potrebbero rivelarsi negli anni sempre più devastanti.
Chiamato inizialmente a «risolvere gli inconvenienti dell’aborto chirurgico», l’aborto chimico è visto ormai sempre più spesso come un cavallo di Troia carico di detestabili conseguenze impreviste.
di Daniele Zappalà - Avvenire, 20 ottobre 2009
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