Quel giorno seppi che avevo tolto la vita all’unico bambino che avrei mai portato in grembo. Avevo venticinque anni e stavo impazzendo quando seppi di essere incinta. Il padre del mio bambino era andato via, ed io ero sola e disperata. Non lo dissi a nessuno tranne alla mia migliore amica che mi portò in auto alla clinica per aborti di Planned Parenthood a Nashville nel 1984. Scelsi la via d’uscita più facile, così pensavo all’epoca.
Ricorderò quel giorno per il resto della mia vita. La stanza era fredda come lo staff. Non c’era empatia, assistenza, o attenzione medica personale.
Mi sentivo come un pezzo di carne in una catena di montaggio mentre le ragazze venivano trasferite dentro e fuori dalla stanza. Non mi fecero nessuna anestesia, né medicazione, né mi diedero una mano da tenere.
Seppi di avere fatto un errore non appena udii il rumore di aspirazione della macchina, ma era troppo tardi per cambiare idea.
Ricordo di aver guardato il barattolo e di averlo visto riempirsi di pelle, sangue e tessuto del mio bambino. Dissi all’infermiera che stavo per rimettere e lei mi disse: “Basta che stai tranquilla”. Non sono mai stata più la stessa.
Alcuni giorni dopo, mentre ero al lavoro, cominciai ad avere crampi, sanguinamenti e febbre, tutto dovuto all’aborto incompleto. Dovetti lasciare il lavoro immediatamente per cercare assistenza medica.
Erano rimaste parti del bambino dentro di me, provocando una grave infezione, e un raschiamento d’urgenza raschiò via i resti dal mio utero.
Un anno dopo, attorno alla data dell’aborto, cominciarono gli attacchi di panico. Stavo uscendo di senno. Divenni molto depressa e cercai di uccidermi prendendo un’intera bottiglia di pillole antidolorifiche, e rimasi incosciente per tre giorni. Ero a casa da sola.
Un terapeuta ha lavorato con me per un anno, ma non toccò mai l’esperienza dell’aborto.
Dopo anni di droga, alcool e sesso promiscuo, sapevo che la mia vita doveva cambiare. Andai via dalla città, sposai un uomo meraviglioso; frequentavamo la chiesa e abbiamo dato i nostri cuori a Gesù.
Cercammo di avere un bambino, ma qualcosa non funzionava. La clinica per la fertilità determinò che ero sterile a causa del danno provocato dall’enorme cicatrice lasciata dall’aborto.
Volevo morire. Non potevo stare attorno ai bambini o andare a una festa per una mamma incinta. Mi sembrava di stare scavando una buca e di morire. Caddi in una profonda depressione clinica. Nessuno mi aveva detto che mi sarei mai sentita così.
Rifiutai di pensare all’adozione fino ad un giorno in cui stavo piangendo all’altare ed una piccola bambina di due anni mi mise le braccia attorno e mi disse che mi amava. In quel momento seppi che potevo amare il figlio di qualcun altro come fosse mio. Cominciò la guarigione… Dio però non aveva ancora finito con me.
Una sera ad una conferenza di donne, Dio mi purificò e liberò da ogni senso di colpa e vergogna. Egli mi diede libertà e perdono, facendomi uscire dalla mia prigione personale.
Dopo la metamorfosi spirituale, tornai a casa per ricevere una chiamata dall’ufficio adozioni e la mia bella figlia di cinque mesi e bi-razziale, Arabella, venne a casa a vivere con noi. La gioia fu indescrivibile. Giunsi a capire che, nella sorprendente sovranità di Dio, Egli vede il quadro completo quando noi vediamo solo un’istantanea.
Poco dopo la mia guarigione, divenni assistente in un centro di aiuto alla gravidanza ed ora dirigo il servizio di recupero dall’aborto a Murfreesboro, nel Tennessee.
Voglio dire alle donne danneggiate dall’aborto: C’è speranza. Dio vuole guarirvi e liberarvi.
Testimonianza di Jackie Bullard, Murfreesboro, Tennessee
(http://www.operationoutcry
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